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Alla Boa Vista Ultramarathon con Roberto Aldovini

Finalmente ci siamo. Dopo due mesi di sofferenze inumane, di rinunce alimentari, di tempo rubato agli amici e alla vita privata, riesco a sbarcare a Boa Vista. Faccio parte della quarantina di temerari che tra due giorni si lanceranno in un'impresa che ai miei occhi profani appare quasi inumana: centocinquanta chilometri non stop nel deserto in autosufficienza alimentare. Nell'accogliente residence - hotel Cà Nicola (tanto per non fare pubblicità) - in cui veniamo alloggiati, l'atmosfera è distesa e molto cordiale. La mia presenza tra il gruppo di atleti, più o meno tutti veterani delle competizioni podistiche in generale e qualcuno delle ultramaratone in particolare, viene cordialmente ignorata dalla maggior parte dei presenti.

In realtà non conosco nessuno e provo un certo timore reverenziale nei confronti degli altri compagni di avventura, ragion per cui i primi giorni me ne sto sulle mie. Più che di un atleta in procinto di partecipare ad un'ultramaratona, probabilmente agli altri atleti do l'idea di un turista sessuale.

Quando nel gruppo si diffonde la voce che questa non è solo la mia prima ultramaratona ma la mia prima gara in assoluto (mai corso una dieci chilometri, una mezza maratona o una maratona) una certa apprensione assale gli esperti organizzatori del Friesian Team che, incrociandomi per i corridoi, non lesinano scaramantici gesti anti-cattiva sorte, passando dalle classiche corna alle più virili "grattate", nella speranza che non schiatti proprio durante la gara.

La sensazione di essere totalmente impreparato all’impresa mi attanaglia prepotentemente al momento della verifica dei materiali: non solo mi accorgo che il mio zaino pesa in maniera indecente, ma anche larga parte delle provviste risultano troppo ingombranti e scarsamente adatte al tipo di corsa. Vengo momentaneamente rinfrancato dalla presenza di un altro corridore che si presenta con una confezione di Panforte Sapori!

Le ore trascorrono lente in attesa del via e, a dispetto di tutta l'agitazione che mi ha accompagnato nei due mesi di allenamenti, adesso provo una calma assoluta, quasi mistica, e riesco tranquillamente a passare lunghe ore in spiaggia a guardare il mare, a leggere o semplicemente fissando l'orizzonte. Sono così stranamente distaccato che non perdo troppo tempo nemmeno a memorizzare il road-book che ci hanno consegnato al briefing mentre continuo con una frequenza quasi inquietante a focalizzare l'immagine di me stesso che taglio il traguardo tra gli applausi della folla.

Le ore passano e arriviamo alla sera della vigilia, momento in cui, per scaricare la tensione, diamo vita ad una mega-rissa nel ristorante. In realtà viene organizzata una ben augurante festa africana con cena a buffet. L'idea di allestire un grande tavolo a fondo sala ricolmo di pietanze in modo da creare un'atmosfera più distesa ed informale è in sé brillante e sicuramente lodevole, peccato che nel giro di due minuti il ristorante si trasformi in un campo di battaglia. Appena vengono appoggiati i primi piatti praticamente si scatena l'inferno.

In massa ci avventiamo sulla tavolata in rigoroso ordine sparso afferrando tutto quello che capita a tiro. Con una gomitata stendo un francese alla mia sinistra e riesco ad appropriarmi di due polpette di tonno. La pasta è circondata da un manipolo di assatanati e per farmi spazio sono costretto a prendere a forchettate uno spagnolo ed a calpestare due dello staff di supporto. Un tizio di Avellino riesce a fintare sulla sinistra e superarmi sulla destra, impossessandosi dell'ultima razione di riso. Sconvolto, chiamo a raccolta tutte le mie forze per raggiungere il vassoio delle patate ma un enorme tedesco troneggia su tutti impedendomi l'accesso alle vivande. Per distrarlo fingo uno svenimento ma vengo travolto dalla folla. Come uno scoiattolo in crisi ipoglicemica, mi rintano in un angolo e consumo voracemente tutto quello che sono riuscito a sottrarre all'assalto dell'orda famelica.

Dopo l'indecoroso spettacolo che lascia allibito il personale i servizio, ci ritiriamo ognuno nella sua camera per le poche ore di sonno prima della partenza. La notte trascorre relativamente tranquilla anche se per addormentarmi sono costretto a dare capocciate al muro fino a che non perdo i sensi.

Alle cinque di mattina sono già sveglio con un tasso di adrenalina così elevato che premo il tubetto di dentifricio con tanta energia che sparo uno schizzo di Aquafresh a sei chilometri di distanza decapitando una gazzella. Le operazioni di rasatura non danno un esito migliore e in cinque minuti riesco a procurarmi più cicatrici di Scarface.

Mi vesto per la competizione indossando una magliettina bianca e pantaloncini scuri tutto in tessuto dry-fit e sentendomi stranamente affascinante. Scendo a fare colazione e noto che sono l'unico in tenuta da gara, tutti indossano ancora pantaloncini e magliette di cotone o abiti comodi: se non avessi la mente proiettata in un'altra dimensione mi sentirei quasi imbarazzato. Mi sparo un caffè doppio e una fetta di torta, poi salgo in camera e mi mangio due fette biscottate alla Nutella. Non contento, mi verso un quintale di Nutella direttamente sulla lingua familiarizzando con l'idea dell'inevitabile attacco di acne che seguirà al mio disordine alimentare.

Alle 7.30 inforco i miei occhiali fumè, stile spacciatore a riposo, indosso il mio zaino carico di tutto quello che potrebbe servire per una settimana di campeggio sull'Himalaya e mi dirigo verso la piazza dove verremo allineati per la partenza. A parte accorgermi di essere uno dei pochi senza ghette e calze di nailon per ripararsi dalla sabbia, vengo colto ancora una volta dalla sconfortante sensazione di non conoscere nessuno e di non poter scambiare impressioni, pacche sulle spalle ed in bocca al lupo con qualcuno.

Veniamo finalmente fatti allineare sulla linea di start e questo mi aiuta a distrarmi dal desolante panorama dei miei pensieri. Forse è una mia impressione, ma nell’aria si percepisce una sensazione mista di agitazione, paura, eccitazione, voglia di partire e speranza di tornare. Per quanto mi sforzi, non riesco a vedere gli altri come avversari, ma come compagni di viaggio... e quando sento un concorrente spagnolo picchiarmi sulla spalla e augurarmi "Mucha mierda", capisco che non c'è altro posto in cui vorrei essere in questo momento.

Parte il conto alla rovescia e tutti noi tratteniamo il fiato: Tre, due, uno... VIA!!!

Partiamo in un coro di grida e applausi e dentro di me avverto la sensazione di aver appena compiuto un passo verso qualcosa di epico. Sono tanto gasato che quasi investo il cameraman di Sky Sport inginocchiato davanti allo starter che rimane impassibile nonostante abbia rischiato di perdere l'orecchio sinistro quando gli sfreccio accanto.

Colto da un improvviso lampo di follia, decido di appaiarmi al gruppo di testa galoppando a un buon ritmo. Dopo qualche minuto lasciamo la strada battuta ed entriamo nel primo tratto desertico che ci condurrà al check point numero uno. L'emozione è fortissima e sembra fare pendant con il vento incessante che ci investe frontalmente rendendo maggiore lo sforzo e seccando continuamente la gola. Al primo check point sono ancora incredibilmente agganciato al gruppetto di testa ma subito cominciano ad arrivare le avvisaglie di tutti i problemi che funesteranno questa avventura: la sabbia comincia a diventare tanta, penetrando dovunque e sfregando impietosamente contro le unghie. Intuisco che a breve avrò i piedi maciullati.

Incoraggiato dalla positività dei miei pensieri, raggiungo il secondo punto di controllo, lo stesso per il quale passeremo domani mattina al ritorno. Per non perdere il contatto con il gruppo di testa mi fermo solo a bere ma non carico il camel bag perché calcolo di avere ancora più o meno un litro d'acqua. La mia idiosincrasia per la matematica manifesta tutti i suoi controproducenti effetti quando dieci minuti più tardi, in pieno deserto di Viana, mi accorgo di aver finito da bere. Parte un rosario di imprecazioni che risparmiano solo gli ultimi due santi del calendario unicamente perché la momentanea amnesia indotta dalla sofferenza sottrae i loro nomi alla mia furia verbale.

Per non morire di sete sono costretto a rallentare e presto mi ritrovo solo tra le dune. Continuo a ripetermi che il punto di controllo apparirà presto, ma dopo un'ora che vago come una zanzara cieca, comincio a familiarizzare con l'idea di finire come soprammobile fossilizzato nella casa di qualche isolano. Dopo un'altra ora sono disperato. Mi fermo, apro lo zaino, tolgo una confezione di carboidrati in gel e me li sparo in gola. La sostanza è mielosa e pastosissima ma dà la sensazione di essere liquida.

Quando finalmente intravedo la grande palma sotto la quale è posizionato in punto di controllo numero tre, mi rincuoro e riesco a raggiungere il check point disidratato e con la sabbia che ha ormai occupato anche ogni più piccolo spazio dentro le scarpe tanto che persino i germi hanno dovuto traslocare. Arrivo praticamente senza una goccia di liquido in corpo e spreco uno dei due litri in dotazione solo per reidratarmi. Quando riparto entro immediatamente in crisi mistica e sento tutte le energie del corpo abbandonarmi con la stessa rapidità con cui Blatter ha lasciato gli spalti la notte della finale della coppa del mondo. Sono costretto a fermarmi dopo soli due chilometri per togliermi le scarpe e svuotare la sabbia. Riparto ma le unghie mi fanno veramente male. Rallento di nuovo e un gruppo di concorrenti mi sorpassa tranquillamente quasi fossi fermo, infliggendo un duro colpo al mio morale.

In qualche modo arrivo alla ciminiera che segna il check point numero quattro, da qui in poi si correrà su una spiaggia lunghissima e completamente deserta. Apro lo zaino per mangiare un po' di bresaola ma si è talmente scaldata che sembra di addentare la suola di un paio di scarpe da ginnastica. Lo staff di volontari mi dà grandi pacche sulle spalle e mi informa che mancano solamente centoquindici chilometri. Per poco non svengo.

Imbocco la spiaggia verso il successivo punto di controllo e corro su una distesa di sabbia bianca accompagnato dal suono delle onde. La poeticità del paesaggio sarebbe quasi commovente se non dovesse confrontarsi con il mare di volgarità che esce dalla mia bocca ogni volta che i miei alluci fregano contro la punta delle scarpe. Comincio seriamente a pensare che non arriverò in fondo, non tanto per la stanchezza ma per il dolore. Intanto un altro nutrito gruppo di atleti mi passa davanti. Sempre più depresso, cerco di distrarmi pensando all'ultimo calendario Pirelli.

Quando vengo superato anche dalla mia vicina di appartamento, Marzia, sono talmente "incacchiato" con me stesso che, anziché rispondere al suo gentile saluto, valuto l'opportunità di tramortirla con una pietra per non farmi superare. Raggiungo il punto di controllo del quarantacinquesimo chilometro muovendomi come se avessi subito un'operazione al colon e con la sensazione di aver corso un'eternità mentre sono trascorse solo sei ore.

Qui mi informano che per raggiungere il successivo check point di Santa Monica ho la possibilità di scegliere il percorso sulla spiaggia, più lungo ma ben segnalato e sicuro, oppure optare per la via interna, lontana dalla spiaggia, ma con il rischio di imbattersi in un terreno paludoso nel caso non si segua attentamente il sentiero. Opto per la spiaggia ma dopo nemmeno tre chilometri dico a me stesso "Ma figurati te se posso perdermi?! Io quasi, quasi taglio per la via interna!". Detto, fatto. Viro bruscamente sulla sinistra sperando di ritrovare il sentiero.

Dieci minuti più tardi sono impantanato in quindici centimetri di acqua e fango e continuo il mio accorato appello alle varie divinità perché mi traggano d'impiccio. Provo anche un pezzo a rana ma senza sortire grandi effetti. Fortunatamente vedo spuntare all'orizzonte un quod dell'organizzazione, guidato niente meno che dal guru delle ultramaratone: Piergiorgio Scaramelli. Questi capisce subito che si trova di fronte ad un caso umano e benché probabilmente pensi che solo un pirla possa cacciarsi in una situazione simile, sorride tranquillo e mi dice di ritornare verso la spiaggia seguendo la scia del suo mezzo. Avvilito, seguo il consiglio e mi riporto sulla spiaggia perdendo, grazie alla mai brillante intuizione, un'altra mezz'ora abbondante.

Riprendo a correre in preda alle idee più assurde (tentare di aggirare l'isola a nuoto, catturare una testuggine marina e cavalcarla fino all'arrivo, ipnotizzare un capoverdiano e mettermi nel suo zaino). Benvenuti come un attacco di ilarità ad un sermone funebre, arrivano anche i crampi. Rallento e butto giù qualcosa da mangiare.

In qualche modo, dopo due ore di supplizio, arrivo al check point di Santa Monica dove subisco il primo controllo medico. Pressione e battiti sembrano buoni, passiamo dunque al controllo dei piedi. Prima ancora di togliermi le scarpe capisco che lo spettacolo non sarà dei migliori. Il fatto che una delle infermiere svenga alla vista delle due unghie saltate e dei vari bubboni pulsanti sparsi qua e là sulle rimanenti dita, me ne dà la definitiva conferma. Con pazienza, tolgo un ago dallo zaino e comincio una rapida opera di automutilazione che mi consente dieci minuti più tardi di riprendere la corsa.

La sabbia lascia finalmente il posto ad una distesa di rocce e sterpaglie e la sensazione di poggiare i piedi su qualcosa di solido mi rinfranca. Comincio a correre in maniera più sostenuta. Sono scivolato agli ultimi posti ma sono ancora in piedi e dentro di me sale la voglia di arrivare in fondo a questo stupendo calvario.

L'oscurità cala così velocemente che, senza nemmeno accorgermene, mi ritrovo a correre sotto un manto impressionante di stelle. La selvaggia bellezza del paesaggio mi ripaga di tutte le fatiche affrontate per arrivare fin lì e, se non avessi speso tutte le mie energie per concentrarmi a correre e non fermarmi, sarebbe sicuramente valsa la pena di osservare il tutto con un po' più di attenzione.

Decido di accendere la mia pila frontale e come un minatore derelitto continuo a viaggiare. Appena il fascio di luce si irradia nella notte, tutte le creature volanti dell'isola si radunano sulla mia faccia: mosche, moschini, calabroni, falene, lucciole, cervi volanti, un paio di sterodaptili... in due minuti mi ritrovo la faccia piena di creature schifose. Fortunatamente, dopo qualche chilometro, i mostri alati sembrano perdere interesse per me lasciandomi alla mia solitudine che dura ormai da circa sedici ore.

Raggiungo il novantesimo chilometro in discrete condizioni fisiche ed in pessime mentali. Qui, ho la prima prova tangibile del vero spirito sportivo che alberga in me. Mentre bevo una pessima acqua calda dal gusto gommoso, vengo informato che due concorrenti si sono ritirati: mi abbandono ad un'improvvisa quanto inopportuna esultanza modello "Ola" da stadio. Lo sdegno di tutti gli addetti al check point non scalfisce minimamente la mia gioia. Vengo sottratto ai miei festeggiamenti solo dalla flebile voce di Max (quello del Panforte Sapori) che da dentro una delle tende si lamenta perché vuole riprendere la corsa. Le infermiere insistono che è disidratato e pertanto non può muoversi. Lui, a dispetto di un colorito da mummia incartapecorita, insiste per riprendere la corsa. L'ingresso nella tenda del dottore armato di martello e i conseguenti sei colpi in testa al temerario Max, mettono fine alla discussione.

Riprendo a correre galvanizzato dall'idea di aver recuperato tre posizioni. Dopo qualche tempo mi trovo solo, immerso nelle tenebre, in una prateria di pietre, sterpaglie e conchiglie. Il cielo è sorprendentemente terso e cosparso di stelle. Il vento soffia forte e fresco. Non si sente nulla se non il rumore del mare in lontananza. Alzo gli occhi al cielo e il cuore mi si gonfia di gioia. Assaporo a fondo il momento di libertà mettendomi a cantare l'inno dell'Inter. Il mio show deve aver infastidito qualche creatura di altra fede calcistica perché improvvisamente sento un rumore di zoccoli alla mia sinistra che monta di intensità come il brontolio della mia pancia. Mi volto verso la fonte del rumore puntando la mia pila da fronte ma non vedo nulla. Il rumore è sempre più forte e ad un certo punto viene accompagnato da un verso raggelante che parte da una tonalità bassa per sfociare in un raglio selvaggio che sembra durare un'eternità. Rimango paralizzato, con la pelle d'oca addirittura sulle palpebre e tutti i sensi tesi allo spasimo. Già immagino un drago a sei teste o una gazzella barracuda pronta ad addentarmi.

Poi, dall'immenso deserto di pietre, con un grido inumano, salta fuori una creatura a quattro zampe che mi sfreccia di fronte senza fermarsi. Realizzo che si tratta di un asino proprio un secondo prima che la tachicardia mi stronchi con un infarto fulminante. Ricomincio a correre.

Quando arrivo al check point successivo è ormai passata la mezzanotte e comincia a far freddo. Trovo due concorrenti sdraiati accanto al fuoco. I membri dello staff mi spiegano che sono collassati per assenza di acqua e sali. Nuovamente contengo a stento la mia gioia e sempre più sono grato a questo sport per i valori di lealtà e solidarietà che sto imparando. Incoraggiato dalla prematura dipartita dei miei colleghi, riparto senza fermarmi a riposare.

Il punto successivo segna il centocinquesimo chilometro e l'idea di aver superato i cento chilometri mi infonde nuova vitalità. Il sadismo degli organizzatori si manifesta in tutta la sua ferocia quando realizzo che il check point è stato posizionato in un vecchio faro... e come tutti i fari anche questo "maledetto infame traditore", si trova su una stramaledetta collina di un centinaio di metri che percorrerli mi ruba un quarto d'ora di imprecazioni in bresciano stretto e dieci anni di vita alle gambe.

Quando finalmente raggiungo la cima, incontro la prima in classifica delle donne (quella a cui volevo tirare la pietrata questa mattina) che si sta scaldando dentro una tenda. Sono tentato di chiedere ospitalità e magari estorcerle il numero di telefono ma non voglio raffreddarmi e perdere lo strano impulso a correre che mi pervade. Riparto a testa bassa.

Percorsi venti metri, sento Marzia chiamarmi (come al solito le donne si accorgono di me in ritardo). Dopo una rapida consultazione, decidiamo di percorrere gli ultimi cinquanta chilometri in coppia. Al check point successivo troviamo un altro sciame di cadaveri. Ancora una volta trattengo a stento la mia gioia pizzicandomi le cosce fino a farmi male. L'addetto alla punzonatura ci informa che, grazie alla moria di concorrenti, abbiamo scalato la classifica fino all'undicesimo posto. Ripartiamo entrambi gasati.

La vista del fondoschiena della mia collega che mi ballonzola davanti mi tiene sveglio tra l'una e le quattro del mattino, momento in cui devo tentare una pericolosissima operazione di "minzione in movimento". Con un certo imbarazzo, informo la mia compagna che devo provvedere ad un bisogno corporale. Lei fa cenno di non preoccuparmi ma scommetterei mia sorella che in quel momento sta pensando "Ma guarda se dovevo trascorrere la notte con questo idiota!". Mi porto una decina di metri dietro di lei e tento di eseguire l'operazione senza fermarmi. Rabbrividisco all'idea che qualcuno possa vedermi inseguire una donna in pieno deserto con le braghe calate. Senza un briciolo di dignità residua, mi riporto al fianco della mia collega e riprendiamo la nostra marcia trionfale.

Passiamo un altro check point con baldanzosa noncuranza. Dopo qualche chilometro raggiungiamo un altro concorrente che arranca ai lati della strada. Marzia è talmente premurosa che si ferma a domandargli: "Tutto bene?". Io continuo ad essere pervaso dal mio spirito sportivo e penso "Ma che ti frega?! Andiamo avanti che adesso siamo decimi!". Il poveretto mugugna qualcosa a proposito del fatto che sta recuperando ma la sua cera non è delle migliori. Grazie al mio saggio "Non ti preoccupare, vedrai che si riprende" convinco Marzia ad abbandonare il podista morituro al suo destino, riprendendo la nostra marcia.

Arriviamo al centoventitreesimo chilometro devastati dalla fatica, dal sonno e dalle vesciche. Qui veniamo fatti entrare nel centro medico allestito in alcune baracche di cemento. Nuovamente mi controllano battiti, pressione e temperatura. Constatato che i parametri rientrano nella norma, decidono di passare ad esaminarmi i piedi. Quando tolgo le scarpe questa volta sono io a svenire. Subito mi infilano degli aghi nelle vesciche e aspirano tutto lo schifo possibile (sembrano le scene censurate delle liposuzioni di Nip&Tuck). Rubo immediatamente delle zollette di zucchero e delle scaglie di cioccolato da un piatto lasciato incautamente incustodito e me le lancio in bocca. Il gusto della trasgressione e la scarica di zuccheri mi consentono di riacquistare subito lucidità. Siamo pronti per ripartire ma non prima di essere stati informati che siamo misteriosamente saliti dalla decima alla nona posizione.

Ormai sta albeggiando e mancano solo trenta chilometri. Io e Marzia siamo entrambi euforici, tanto che procediamo a passo spedito fin sopra la collina sotto la quale dovrebbe aprirsi il rettilineo finale. E qui avviene la tragedia. Appena "scolliniamo" e ci troviamo davanti la pista in ciottolato che se ne va dritta per trenta chilometri, perdendosi all'orizzonte senza un'apparente fine, io "sbarello" completamente: comincio a dare segni di insofferenza, mi gratto, impreco, scuoto la testa, vengo colto da un attacco di meteorismo verbale e comincio a parlare a vanvera. La mia compagna affronta lo choc con incredibile compostezza. Procediamo come due morti viventi per un po', finché ci accorgiamo che un capoverdiano ci sta rimontando. Da vero uomo mi volto e le dico: "Senti, io provo lo scatto se no quello mi frega il posto... tanto tu sei già prima". "Si, vai, vai tranquillo".

Così carico, in un panorama surreale, avvolto dalla luce nascente e dalla brezza mattutina, parto con un fantastico scatto di cento metri. Poi mi inchiodo. Rimaniamo così come tre salme a distanza di una trentina di metri una dall'altra. Io davanti, il capoverdiano dietro, Marzia a chiudere. Continuo la mia fantastica fuga e dopo cinque chilometri Marzia ed il capoverdiano sono davanti a me. Dopo altri cinque siamo io e il capoverdiano davanti a Marzia. Praticamente sembriamo legati con l'elastico. Appena uno scatta gli altri vengono catapultati avanti e viceversa.

A dieci chilometri dall'arrivo, voglio ormai gettare la spugna, ma quando vedo apparire la mia ragazza che a cavalcioni di un quod, mi sprona a non mollare, due sono le immediate reazioni: a) vengo colto da un inaspettato quanto improvviso accesso di gelosia perché è accompagnata da un noto playboy isolano; b) e mi sento pervadere da un sentimento di orgoglio così forte che credo di aver provato solo quando mi sono classificato primo al torneo condominiale di Ramino. Continuo a correre con il pensiero che manca ormai poco.

A sette chilometri dalla fine veniamo intercettati da una troupe di Sky Sport. Approfitto della fantastica occasione mediatica per sfoggiare uno spaventoso accento orobico e lanciare a tutti i telespettatori una perla di rara saggezza degna della "Pupa e il Secchione": "Ehhh! Qui è proprio dura!". Il cronista capisce immediatamente di avere a che fare con un decelebrato per cui rimonta in macchina e si allontana optando per delle riprese a distanza. Noi tre riprendiamo la nostra corsa solitaria viaggiando appiccicati come magliette bagnate.

A quattro chilometri dall’arrivo il capoverdiano viene colto da un raptus di follia e decide di partire per lo sprint finale. Io sono talmente "andato" che, senza nemmeno accorgermene, gli vado dietro. Stacchiamo leggermente Marzia che opta, saggiamente, per un' altra strada. La corsa sugli ultimi quattro chilometri si rivela la sofferenza peggiore che abbia mai provato, con interi tratti percorsi in trance, senza un preciso pensiero in mente e con lo sguardo vitreo perso nel nulla. Quando il capoverdiano mi comunica di aver sbagliato strada, trattengo a stento l'istinto omicida e tento di trasformare la rabbia in voglia di correre. Qui sperimento la mia prima esperienza extra-corporea: vedo me stesso correre ma io sono altrove, già sdraiato nel letto con una bella bottiglia di succo di frutta ed una confezione maxi di DVD dei Simpson.

Ad un chilometro dalla fine le condizioni mentali del capoverdiano peggiorano drasticamente, fornendomene una prova tangibile quando decide di lanciarsi in un improbabile quanto devastante scatto finale. Arriviamo sul rettilineo d'arrivo pieno di gente che batte le mani e che ci saluta. Io ormai ho la bava alla bocca e l'orchite agli occhi. Ad ogni passo il corpo si contorce dal dolore e sono sempre più sicuro di essere prossimo ad un'epica dipartita. Decido comunque che non posso mollare a pochi metri dalla fine. Scatto pure io: corriamo così gli ultimi cento metri a perdifiato.

Arriviamo sulla linea del traguardo contemporaneamente (e solo grazie a un sofisticatissimo laser a pedali, l'organizzazione riuscirà a stabilire che ho tagliato il traguardo mezzo decimo di secondo prima del mio collega, cosa sulla quale non metterei la mano sul fuoco). Mi ritrovo circondato da gente che mi dà pacche sulle spalle e si complimenta, mentre dentro di me giuro e spergiuro che non ripeterò mai più quest'esperienza. Nel frattempo qualcuno mi infila una medaglia al collo. Qualcuno mi prende lo zaino. Qualcuno mi solleva e mi fa salire sul retro di un pickup dove il capoverdiano, ormai esangue, giace in un poco incoraggiante stato di rigor mortis. E mentre il pickup corre verso il centro medico, con l'aria del mattino che mi picchia sul viso, sperimento la sensazione più bella del mondo: un misto di pace, orgoglio, sfinimento indescrivibile e serenità... mi sento come se avessi appena partorito.

Ricompare il cronista a cui evidentemente devo risultare simpatico e vengo fatto accomodare in una postazione televisiva improvvisata. "Alla fine quali sono le tue sensazioni sulla gara?". Preso nuovamente alla sprovvista, mi trovo ad improvvisare pescando dalla mia scorta di luoghi comuni. Un'intuizione degna di Perry Mason mi salva in corner facendomi partire con un improbabile sermone sul valore del sacrificio e dell'esplorazione dei limiti interiori. A fine intervista piango io, piange lui, piange il cameraman e i milioni di spettatori accorsi sull'isola per assistere alla mia intervista. Mi alzo con il cronista che mi dice: "Complimenti! Sei proprio forte!". "Grazie, grazie...".

E poco prima di perdere i sensi per le successive dodici ore, cambio nuovamente idea: l'anno prossimo sarò di nuovo a Boa Vista.


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